NBA

La storia, l’impatto, la Mamba Mentality e la leggenda: il ricordo a due anni dalla morte di Kobe Bryant

Generation Sport presenta NBA Tales, una rubrica sulle storie dei protagonisti del basket d’oltreoceano. La puntata di oggi è particolarmente toccante per tutti gli appassionati di basket e non solo perché vogliamo rendere omaggio a Kobe Bryant a due anni dalla sua morte. Cercheremo di trasportarvi nella vita del Mamba, nella sua magica carriera con i Los Angeles Lakers e nel suo pensiero, la Mamba Mentality. Speriamo di essere bravi abbastanza per raccontarvelo e rendere onore ad uno dei più grandi cestisti di sempre.

Calabasas, 26 gennaio 2020 9.48 a.m.

Iniziamo il nostro racconto a Calabasas, contea di Los Angeles, 26 gennaio 2020 alle 9:48 dell’orario locale, un elicottero con a bordo 9 persone si è schiantato. Non ci sono sopravvissuti: decedono Kobe Bryant, sua figlia Gianna, il pilota Ara Zobayan, Alyssa Altobelli (compagna di squadra di Gianna) con i genitori John e Keri, Payton Chester (altra compagna di team) con sua madre Sarah e l’assistente Christina Mauser. Gli otto si stavano dirigendo all’aeroporto di Camarillo per poi partecipare ad una partita di basket della Mamba Sports Academy. Tuttavia, le cattive condizioni atmosferiche hanno causato la deriva e poi lo schianto dell’elicottero, che ha poi preso fuoco dopo l’impatto con il suolo. Non c’è stato nulla da fare per le 9 persone coinvolte nonostante le forze dell’ordine siano arrivate in tempi rapidissimi sul luogo.

Vogliamo partire dalla fine di Kobe per poi fare un viaggio a ritroso verso la vita. La morte del Mamba è qualcosa che ha colpito tutto il mondo, anche chi di basket non sa nulla e chi non conoscesse il campione. Forse per la tragicità della morte, forse per il fatto che sono state coinvolte altre 8 persone fra cui ragazze giovani, tra cui sua figlia Gianna o forse perché Kobe ha lasciato un grosso segno sul mondo grazie alla pallacanestro. Fatto sta che il mondo ha pianto tanto intorno a Kobe e sua figlia, lo ha commemorato, lo ha reso omaggio con murales ed iniziative negli angoli più sparsi del globo. Kobe Bryant ci ha lasciato prima che il mondo cambiasse, prima che la vita di tutti noi prendesse una svolta indesiderata per causa di una pandemia e forse il destino gli ha voluto risparmiare tutto questo.

Oh my sweet Italy

Kobe Bean Bryant nasce a Philadelphia il 23 agosto 1978 ed è il terzo figlio di Joe Bryant, giocatore NBA, e Pamela Cox. I due coniugi durante una cena in un ristorante pare siano stati catturati dal nome di una nota carne giapponese e abbiano deciso di dare questo nome particolare al loro terzo genito. Bean invece è un’abbreviazione del soprannome del padre, conosciuto ai più come “Jellybean”. Il piccolo Kobe subisce il lavoro del padre Joe nei primi anni che si sposta dentro gli States più volte e non riesce mai a mettere fondamenta di amicizia. Tuttavia, durante un match fra i San Diego Clippers, squadra dove militava ai tempi Joe, e i Los Angeles Lakers si innamora della palla a spicchi e soprattutto dei colori gialloviola. Da quel momento in poi nel piccolo di casa Bryant cresce la consapevolezza: vuole giocare a basket in NBA.

All’età di sei anni arriva però una decisione importante che lo coinvolge: papà Joe si ritira dall’NBA e vola in Italia per continuare a giocare a basket. Kobe arriva così a Rieti insieme alle sue due sorelle e sua madre, muovendo i suoi primi passi nel mondo della pallacanestro nel bel paese. I continui spostamenti però non si fermano e Kobe viene sballottolato fra Reggio Calabria, Pistoia e infine Reggio Emilia. Qui papà Joe resta un po’ più di tempo e Kobe inizia a stabilizzarsi e ad imparare i fondamentali del gioco. Nel frattempo, la NBA resta il suo tarlo grazie alle cassette registrate ed inviate dai suoi parenti negli States. Lo dimostra tra l’altro anche in alcuni atteggiamenti in campo e fuori.

Bryant è il migliore della sua squadra nelle giovanili delle Reggiana, mostra le sue doti sia tecniche che di leadership e dedizione. Un episodio cattura particolarmente la memoria di tutti, durante un allenamento Kobe subisce un piccolo infortunio al ginocchio e viene soccorso dai suoi compagni. Il piccolo Bryant scoppia in lacrime e rincuorato dai compagni dice stizzito: “Non capite, così non potrò giocare in NBA!”. Gli altri ragazzini lo prendono in giro, dall’Italia al maggior campionato di basket, un risultato impossibile da pensare ad inizio anni 90. Nel 1992 Joe Bryant chiude la sua carriera cestistica e decide di far tornare tutta la famiglia a casa a Philadelphia. Kobe resterà per sempre legato al nostro paese e più volte dirà che tante delle sue fortune per emergere in NBA è stato quello di imparare il gioco in Italia.

Lower Marion Star

Tornato negli States, Kobe finisce gli anni delle medie alla Bala Cynwyd Middle School e passa alla Lower Marion High School in Ardmore nell’interland di Philadelphia. Bryant riesce ad entrare nella squadra di basket della scuola già nel suo anno da matricola e diventa anche il primo freshman a giocare una gara da titolare dopo tanti anni. Tuttavia, la squadra non riesce ad esprimersi nonostante la futura star brilli chiudendo la stagione con un record di 4 vittorie e 20 sconfitte.

La sconfitta è sempre stata poco digerita da Kobe ma è stata la motivazione per alimentare la sua voglia ed etica del lavoro che lo ha contraddistinto nella sua carriera. Kobe ha sempre messo il lavoro, il progresso e la perfezione davanti a tutto e proprio negli anni della high school è cresciuta a dismisura questa sua caratteristica. Nei successivi tre anni gli Aces, nome della squadra di Lower Marion, hanno raccolto un record di 77-13 con anche una striscia di 30 vittorie consecutive.

Nel 1995 Kobe aumenta a dismisura le sue medie arrivando a 31.1 punti, 10.4 rimbalzi, 5.2 assist, 3.8 stoppate e 2.3 palle rubate con numerosi riconoscimenti personali e l’attenzione di tanti college. Il ragazzo di Philadelphia rimane però folgorato quell’anno dal doppio salto di Garnett dalla high school al Draft NBA e inizia a nutrire dentro sé una scelta: provarci anche lui il prossimo anno.

Kobe trascina gli Aces alla vittoria del campionato statale dopo 53 anni nel 1996, diventa il Naismith High School Player of the Year e viene selezionato nel quintetto All-American. Bryant chiude la sua carriera alle scuole superiori con 2883 punti segnati, superando personaggi del calibro di Wilt Chamberlain e Lionel Simmons fra le scuole nel sud-est della Pennsylvania. Ora era arrivato il momento di confrontarsi con i professionisti, con i suoi idoli come Michael Jordan e durante l’estate annuncia la sua eleggibilità per l’NBA Draft 1996.

Draft 96: I wanna be a Laker

Il Draft 1996 vede tante star affacciarsi al mondo NBA con una che brilla sicuramente più di tutte: Allen Iverson. The Answer è la prima scelta assoluta dopo che la sua stella aveva brillato a Georgetown e i Philadelphia 76ers non se la fanno sfuggire. Marcus Camby è invece il centro più interessante ed è scelto alla seconda dai Toronto Raptors. Shareef Adbulr-Rahim è la scelta di Vancouver al terzo posto e ora è l’attuale presidente della G-League, la lega di sviluppo della NBA. Milwaukee e Minnesota si scambiano invece quarta e quinta scelta con Stephon Marbury ai Twolves per il futuro Hall of Fame Ray Allen ai Bucks. Kobe aveva effettuato uno scrimmage con i Los Angeles Lakers, la sua squadra del cuore, qualche giorno prima e il manager Jerry West se n’era completamente innamorato.

The Logo decide allora di compiere la mossa per assicurarsi Bryant e liberare spazio salariale per l’ingresso di Shaquille O’Neal: scambiare Vlade Divac. I Charlotte Hornets sono i più convinti dell’operazione e decidono di accettare il serbo in cambio della loro tredicesima scelta, scegliendo chi gli avrebbero comunicato i gialloviola. Dalla sesta alla dodicesima scelta vengono chiamati giocatori che non avrebbero avuto un grosso impatto sulla Lega, fatta eccezione per Antoine Walker campione con Miami e tre volte All-Star. Arriva il momento di Charlotte, i Lakers indicano il nome di Kobe che sale sul palco al fianco di David Stern con il cappellino degli Hornets. La trade subisce però uno scossone: Divac non vuole più trasferirsi a Charlotte. West interviene immediatamente e riusce a far cambiare idea al serbo, il 30 giugno 1996 lo scambio va in porto e Kobe Bryant è ufficialmente un giocatore dei Los Angeles Lakers.

Rookie Year: difficoltà nell’inserimento

Kobe debutta in maglia gialloviola nella Summer League impressionando tutti gli addetti ai lavori con 25 punti di media a partita e 36 nella finale del torneo estivo. La stagione 1996-97 da rookie inizia ovviamente dalla panchina con poco tempo per far vedere il suo talento. Il debutto contro Minnesota vede il suo impiego per soli 6 minuti con 0 punti, un rimbalzo, una stoppata e una palla persa, non certo il miglior ingresso possibile.

Kobe acquisisce esperienza nella Lega, gioca sempre più minuti nel corso della stagione. Diventa il più giovane starter ai tempi in occasione della gara di gennaio contro Dallas e nel finale di regular season trova anche 24 punti contro Golden State. Nel weekend dell’All-Star Game viene selezionato per la gara delle schiacciate che vince diventando il più giovane a riuscirci. I Lakers si qualificano per i playoff dove superano Portland dopo 4 gare e in semifinale trovano un ostacolo che si chiama Utah Jazz.

Dopo due sconfitte a Salt Lake City, i Lakers riescono a vincere gara 3 a LA con Bryant che sigla anche 19 punti. Utah vince la successiva e si va alla decisiva gara 5 con l’imperativo di win or go home per i gialloviola. Senza Byron Scott infortunato, Robert Horry e Shaq espulsi, tutto il peso del finale combattuto va sulle spalle di Kobe. Il numero 8 si prende prima il tiro per la vittoria allo scadere ma è solo airball, nell’overtime si costruisce altri tre tiri da tre importanti ma il risultato è sempre lo stesso: neanche ferro e i Lakers vengono eliminati. Piovono inevitabilmente critiche sul rookie ma Shaq interviene davanti alle telecamere e afferma che è stato l’unico capace di prendersi la responsabilità di quei tiri. Arriva così l’investitura per il futuro ma Kobe quando perde sa fare solo una cosa, lavorare ancora più duramente.

Shaq e Kobe: la formazione del duo

I Lakers iniziano così a pensare di formare una dinastia sui due pilastri futuri della franchigia: Kobe Bryant e Shaquille O’Neal. The Diesel era arrivato a LA con la convinzione di vincere dopo la delusione della sconfitta alle Finals con Orlando ed era già una star affermata. Kobe era stato indicato come il futuro della Lega ma doveva ancora trovare la sua dimensione definitiva. La seconda stagione vede Bryant aumentare il suo contributo passando da 7.6 a 15.4 punti di media, chiudere al secondo posto come Sixth Man of The Year ed essere eletto come All-Star. I Lakers battono ancora Portland al primo turno con una grande prova di Bryant in gara 4.

I gialloviola superano anche l’ostacolo Seattle in semifinale e approdano finalmente in finale di Conference ancora contro Utah. Questa volta però non c’è storia e i Jazz sweepano i Lakers dopo 4 gare senza dare mai la possibilità di giocarsela. La season 98-99 è la prima da titolare di Kobe, viste le partenze di Van Exel e Jones, con tutte e 50 le gare giocate in una stagione condizionata dal lockout. I playoff vanno ancora male: Houston battuta in 4 gare con un grande Bryant, sweep subito dai futuri campioni di San Antonio. Per la prima volta il progetto dei gialloviola inizia a scricchiolare con Shaq che ha ripensamenti sulla sua scelta di arrivare in California.

Three-peat

Nell’estate 1999 arriva però la svolta da parte di Jerry West e la dirigenza dei Lakers: viene ingaggiato Phil Jackson come head coach. La leggenda dei Bulls vuole provare il suo famoso attacco a triangolo con Shaq e Kobe come esecutori d’eccezione. Il numero 8 salta le prime gare della regular season per un infortunio alla mano ma dal momento in cui entra nelle rotazioni di Jackson le sue medie si alzano inevitabilmente. Kobe aiuta i Lakers a chiudere la season con 67 vittorie, entra nel primo quintetto difensivo della stagione, O’Neal vince l’MVP e i gialloviola sono i favoriti per l’anello. Kobe si ritrova come secondo violino alle spalle di The Diesel ma è fondamentale nel superare gli ostacoli Sacramento e Phoenix in 5 gare. Alle finali di conference contro Portland si arriva alla decisiva gara 7 dopo che i Lakers hanno buttato un vantaggio di 3-1.

Bryant firma una grandissima prestazione nell’ultima gara della serie con 25 punti, 11 rimbalzi, 7 assist e 4 stoppate più l’alley-oop decisivo per Shaq per chiudere il match e approdare alle Finals. Gli avversari per il primo anello sono gli Indiana Pacers di Reggie Miller ma i pronostici sono tutti gialloviola. I Lakers vincono le prime due gare in casa ma Kobe si fa male ad una caviglia ed è costretto a saltare gara 3, vinta dai Pacers. Bryant torna in gara 4, ne fa 28 e i Lakers si portano sul 3-1 ma arriva la reazione pesante in casa di Indiana in gara 5. Si torna a LA per la decisiva gara 6, i Lakers trionfano 116-111 e conquistano il campionato dopo 12 anni d’attesa. Si tratta del raggiungimento del sogno immaginato da West nell’estate 1996 e quello di Kobe di raggiungere il tetto del mondo.

La stagione successiva vede Kobe Bryant partire ad allenarsi subito dopo la vittoria mentre Shaq si presenta in cattiva forma in preseason. Iniziano qui i primi screzi fra i due che diventano anche pubblici nel corso della stagione. Kobe aumenta le sue medie punti durante la season e raggiunge anche i 51 punti nella gara contro i Golden State Warriors. Kobe non vince nessun premio ma raddoppia il primo quintetto difensivo dell’anno prima. I Lakers si qualificano ancora per la post-season ma con un record decisamente peggiore rispetto all’anno precedente. La vita privata di Kobe cambia il giorno dopo la fine della stagione con il matrimonio con la diciassettenne Vanessa Laine, conosciuta un anno e mezzo prima ma la relazione è osteggiata dai genitori di entrambi. Al matrimonio ci saranno solo poche persone, nessuno fra i compagni di squadra a dimostrazione dei rapporti poco sereni nello spogliatoio.

Ai playoff non c’è storia: sweep contro Portland, Sacramento e San Antonio con due gare oltre i 45 punti per Kobe. Alle Finals si presentano i Philadelphia 76ers di una vecchia conoscenza come Allen Iverson. The Answer gioca una gara 1 iconica e permette ai Sixers di piegare gli imbattuti Lakers. Tuttavia, il sogno dei 76ers dura pochissimo e i Lakers dopo 5 gare si laureano per il secondo anno consecutivo campioni NBA con Shaq MVP delle finali. La season 2001/02 vede ancora degli screzi fra Bryant e Shaq ma aumenta anche il disagio fra il numero 8 e coach Zen che lo considera troppo solista. La stagione regolare si chiude al secondo posto dietro ai rivali statali di Sacramento e con il titolo di MVP dell All-Star Game giocato nella sua città natale, Philadelphia.

I playoff si fanno più complicati rispetto alla stagione precedente: sweep a Portland e 4-1 contro San Antonio messi da parte, arrivano i Sacramento Kings alle Conference Finals con il fattore campo. Dopo le prime 5 gare i Lakers si trovano sotto 2-3 e con la possibilità di non raggiungere l’anello. I 72 punti di gara 6 e i 65 di gara 7 della coppia Bryant-O’Neal permettono ai Lakers di giocarsi le Finals per il terzo anno di fila contro i New Jersey Nets di Jason Kidd. Qui non c’è assolutamente storia per i losangelini che asfaltano i rivali in 4 gare e festeggiano il three-peat, terzo titolo consecutivo. Kobe diventa il più giovane ad aver vinto 3 campionati NBA, cresce la sua considerazione come giocatore decisivo ma ancora una volta è Shaquille O’Neal ad essere premiato come MVP.

La rottura

Dopo i tre titoli consecutivi, i Lakers e il loro coach Jackson vogliono riuscire nell’impresa che è riuscita solo ai Boston Celtics della dinastia: vincere il quarto anello di fila. La stagione regolare inizia bene con Kobe che gioca un mese di febbraio mostruoso. Mette in fila 9 gare da almeno 40 punti con picchi di 51 contro Denver e 52 contro Houston e chiude il mese con una media di 40.8 punti. Ai playoff i Lakers superano Minnesota dopo 6 gare con Kobe oltre i 30 punti di media ma crollano in semifinale contro San Antonio e devono dire addio ai sogni di gloria. Il clima si fa sempre più teso nello spogliatoio gialloviola da quel momento e soprattutto nella vita di Kobe.

Durante l’estate del 2003, Kobe Bryant viene arrestato in Colorado per un’indagine di violenza sessuale nei confronti di una diciannovenne cameriera in un hotel. Il cestista ammette in una commuovente conferenza stampa davanti alla moglie di averla tradita ma nega di aver agito senza il consenso della ragazza. Il caso gli fa perdere diversi sponsor e condiziona ulteriormente la sua carriera visto l’aumento dei dissapori con Shaq. Kobe salta infatti parecchi allenamenti e qualche gara in quella stagione per gli impegni in tribunale. Proprio durante una delle interviste prestagionali, O’Neal afferma che la squadra è tutta presente mettendo così da parte il compagno. I Lakers operano tanto in quella sessione di mercato con gli ingressi pesanti di Gary Payton e Karl Malone per rivincere l’anello.

Ai playoff i losangelini fanno fuori Houston, San Antonio e Minnesota tornando così alle Finals dopo un anno d’assenza. Ad aspettarli ad Est ci sono gli underdog Detroit Pistons dei Bad Boys 2.0. Ben Wallace e compagni distruggono i Lakers, soprattutto da un punto di vista fisico e difensivo, e vincono l’anello dopo 5 gare. Si tratta del punto di rottura dei rapporti fra Phil Jackson e Kobe Bryant: il coach chiede ai Lakers di scambiare la guardia oppure non rinnoverà il suo contratto, il numero 8 dice di voler diventare free-agent. I gialloviola, nonostante non ci sia più Jerry West, prendono la propria decisione rinnovando il contratto a Kobe e cacciando di fatto sia Phil Jackson che Shaquille O’Neal, scambiato a Miami. Lo stesso Jackson scrive poi di lui nella sua biografia descrivendolo come un giocatore “inallenabile”.

La creazione del Mamba

Nasce proprio durante quella stagione il concetto di Black Mamba. Bryant si crea un alter ego per il parquet tenendo fuori la vita privata. Kobe si dovrà occupare dei suoi problemi mentre il Mamba, serpente letale, si dovrà occupare di uccidere gli avversari. Il soprannome pare gli sia stato ispirato da quello di Uma Thurman in KIll Bill. L’animale è un cacciatore e incute timore nelle prede come lui voleva farlo in campo. Senza Jackson e Shaquille O’Neal, i Lakers per la prima volta ricadono tutti sulle spalle di Kobe.

Tuttavia, il roster non era più quello del threepeat e i losangelini trovano grosse difficoltà durante la stagione. Kobe ci prova in tutti i modi ma per la prima volta in quasi 10 anni devono dire addio ai playoff. Il numero 8 viene continuamente criticato di aver rovinato la legacy dei Lakers e di non riuscire a vincere un titolo senza Shaq. Un’accusa troppo pesante per il Mamba che attiva il suo spirito competitivo in ottica della stagione successiva.

Kobe e i Lakers si mettono così d’accordo su un gran ritorno inaspettato, quello di Phil Jackson. Kobe mette da parte i rancori per le parole dette da coach Zen in nome della vittoria e di costruire un nuovo ciclo vincente. In quella stagione Kobe piazza forse due delle più grandi prestazioni personali di sempre. Prima i 62 punti in tre quarti contro Dallas con il Mamba che ha segnato più punti dei Mavericks a 12 minuti dalla fine come mai nessuno aveva fatto nell’era dello shot clock.

Nel gennaio 2006 arrivano invece gli 81 punti rifilati ai Toronto Raptors che ne fanno la seconda prestazione di sempre in NBA dietro ai 100 dell’irraggiungibile Wilt Chamberlain. Kobe chiude la stagione regolare con il titolo di miglior realizzatore e soprattutto con il ritorno dei Lakers ai playoff. Qui i losangelini affrontano Phoenix al primo turno andando avanti 3-1 nella serie ma facendosi rimontare fino al 3-4, tutto questo nonostante Kobe ne segni 50 in gara 6.

L’arrivo del 24

Kobe decide così di dare una svolta alla sua carriera e lo fa in modo simbolico: lascia il numero 8 e prende il 24. Bryant ammetterà poi che avrebbe voluto il numero 24 sin dal suo ingresso nella lega ma che al tempo era già occupato così come lo era il 33 della high school. L’8 era invece il frutto della somma del numero che aveva indossato al campus Adidas l’estate del Draft, 143. Il Mamba deve cambiare rotta alla sua carriera e ha visto inoltre l’ex compagno Shaquille O’Neal vincere il quarto anello in quell’estate. La stagione scorre come la precedente, Kobe vince un’altra volta la classifica marcatori e i Lakers trovano di nuovo Phoenix al primo turno. Così come l’anno prima, LA viene eliminata ma questa volta non c’è completamente partita e Kobe subisce numerose critiche.

Si tratta di un periodo pessimo per la carriera di Kobe, il tarlo di non riuscire a vincere senza Shaq lo abbatte e non c’è più Jerry West ad aiutarlo. Kobe arriva addirittura a minacciare i Lakers in quella stagione: o torna The Logo oppure mi scambiate. La dirigenza gialloviola riesce a mediare e promette al 24 la costruzione di una squadra da titolo. Arriva così durante la stagione Pau Gasol in una trade iconica che fa cambiare il percorso dei losangelini.

Bryant gioca una season stupenda, trascina i Lakers ai playoff e vince finalmente un titolo MVP nonostante un infortunio ne condizioni molto il tiro. Il Mamba non può lasciare i suoi con il meglio della stagione davanti e decide di operarsi dopo le Olimpiadi 2008. Dopo aver sweepato Denver al primo turno, i Lakers eliminano Utah in una serie molto tesa con Kobe da oltre 30 punti di media e San Antonio senza troppi problemi.

Kobe arriva per la prima volta alle Finals senza Shaq, 6 anni dopo il threepeat e contro i Boston Celtics dei Big Three. Lakers vs Celtics è la rivalità più grande della NBA, le due franchigie più vincenti e che hanno segnato le varie epoche del basket americano. Le prime due gare vanno a Boston che sfrutta il fattore casa con Garnett sugli scudi e Pierce decisivo. Kobe però non ci sta a perdere così contro i rivali e in gara 3 accorcia le distanze con una super prova da 36 punti. Gara 4 sembra rafforzare un buon momento per i Lakers che vanno avanti di 21 punti. Tuttavia, si fanno riprendere nel finale del terzo quarto e cadono nell’ultimo periodo segnando la rimonta più larga mai accaduta alle Finals.

Si arriva al turning point di gara 5 con la possibilità per Boston di vincere l’anello. Il match subisce lo stesso copione della precedente, vantaggio largo dei Lakers e rimonta Celtics nella seconda parte del match. Stavolta però il Mamba si attiva per evitare il ko davanti al suo pubblico e con un finale di forza costringe a rinviare la festa ai leprecauni. Sì, perché la vittoria di Boston è solo rinviata al Garden qualche giorno dopo con i Big Three a festeggiare e Kobe sconsolato e sconfitto. Tuttavia, quell’estate arriva una bella ricompensa con la vittoria della medaglia d’oro olimpica a Pechino da assoluto protagonista insieme ai giovani terribili come LeBron James e Dwayne Wade.

Gioia e rivincita

La stagione 2008/09 vede i Lakers partire fortissimo con la voglia di raggiungere finalmente il titolo. Lo stesso Bryant parte a mille con due premi di giocatore del mese a dicembre e gennaio e 61 punti segnati al Madison Square Garden nel primo match di febbraio. All’All-Star Game arriva anche la pace definitiva con Shaq dopo che i due vincono in condivisione il premio di MVP della partita. I Lakers chiudono la regular season con il miglior record ad Ovest e Kobe è secondo all’MVP dietro LeBron. Ai playoff Utah viene battuta dopo 5 gare mentre Houston resiste fino a gara 7, dove un grande Gasol porta i gialloviola alle finali di Conference. Qui arriva Denver che deve invece arrendersi dopo 6 gare e Kobe rivede le Finals contro la sorpresa Orlando.

I Magic di Dwight Howard non hanno però nessuna speranza contro un roster losangelino nettamente superiore, in più un Mamba avvelenato e voglioso di raggiungere Shaq nel numero di anelli vinti. Kobe chiude le 5 gare con 32 punti e 7 assist di media come non accadeva dai tempi di Jordan e il conseguente titolo di MVP delle Finals. La maledizione di non riuscire a vincere da solo si è finalmente spezzata e Kobe sente questo come il suo titolo più importante, quello da leader indiscusso. La stagione successiva vede i Lakers vogliosi di bissare il titolo e Kobe vuole provare a raggiungere il quinto successo personale. Tuttavia, alcuni infortuni alla mano e alla caviglia condizionano la stagione regolare del 24 che salta alcune gare. Kobe riesce comunque a segnare parecchi tiri decisivi, sorpassare Jerry West come miglior realizzatore della franchigia e prolungare il suo contratto con i Lakers.

I playoff scorrono in modo agevole per i gialloviola: Oklahoma City in 6 gare, sweep a Utah e vittoria ad Ovest contro Phoenix in 6 gare. Alle Finals si presentano i Boston Celtics e l’odore di rivincita di due anni prima anima tutto il popolo losangelino. Kobe non vede l’ora e lo dimostra subito in gara 1 con 30 punti in faccia ai leprecauni. Gara 2 allo Staples Center però va male (Ray Allen stratosferico) e si va a Boston con il risultato in parità. Al TD Garden i gialloviola giocano un gran primo tempo e scappano ma si fanno rimontare nella ripresa.

Tuttavia, stavolta i Lakers sanno come gestire questi momenti e nel finale piazzano l’allungo decisivo in particolare con un gioco da tre di Fisher. Boston ha un moto d’orgoglio, riesce a pareggiare in gara 4 grazie ad un ultimo quarto straordinario e addirittura passa in vantaggio dopo gara 5 nonostante un Kobe da 38 punti. I Lakers sono quindi al bivio: o vincono le prossime due gare oppure sarà ancora sconfitta. Gara 6 è senza storia con i Lakers che sotterrano i Celtics tenendoli a medie bassissime di realizzazione.

Il match che assegna il titolo si gioca in uno Staples Center gremito ma vede Boston partire meglio e chiudere il primo tempo davanti. I Lakers finiscono addirittura sotto di 13 punti nel terzo quarto ma il Black Mamba non vuole deludere il suo pubblico. I gialloviola recuperano trascinati da un Kobe che ne mette 10 sui 23 totali nell’ultimo quarto e la chiudono con i liberi di Vujacic. Bryant vince così il suo quinto titolo NBA, diventa ancora una volta MVP delle Finals e riesce a vendicare la bruciante sconfitta di due anni prima.

L’obiettivo ora diventa pareggiare Michael Jordan come numero di vittorie e farlo con un altro three-peat sarebbe eccezionale. La stagione si svolge nel solito modo ma i Lakers appaiono meno pronti rispetto ai due anni successivi. New Orleans viene battuta dopo 6 gare al primo turno ma Dallas è troppo forte e i losangelini subiscono un pesante sweep. Si infrange contro i texani il sogno di Kobe che dovrà dire addio anche a coach Phil Jackson, deciso a ritirarsi dal basket.

Infortuni e scelte sbagliate: il declino

Con coach Brown al posto di Jackson, i Lakers non perdono le speranze di titolo nonostante tante difficoltà durante la stagione 2011/12. Il Mamba tuttavia non molla la presa e dopo essere stato chiamato il settimo miglior giocatore della Lega da alcuni giornalisti, infila quattro gare da 40 o più punti per la sesta volta in carriera. Nel finale di regular season però arriva un infortunio fastidioso che lo costringe a saltare parecchie gare e non essere al meglio per i playoff. Denver viene superata con tante difficoltà dopo 7 gare ma Oklahoma City è un ostacolo troppo grande e dopo 5 gare i gialloviola dicono addio ai sogni di gloria. La gara 5 in casa dei Thunder si rivelerà poi l’ultima apparizione di Kobe Bryant ai playoff, ovviamente chiusi a suo modo con 42 punti.

A LA in estate arrivano due All-Star come Dwight Howard e Steve Nash per provare a dare un ultimo colpo di coda in ottica titolo. Brown viene esonerato dopo poche gare e al suo posto arriva Mike D’Antoni per provare a portare i Lakers ai playoff. Kobe vuole assolutamente giocarsi le sue ultime chance e gioca tanti minuti a gara come mai in carriera, nonostante la carta d’identità segni 35 anni. Nella terzultima gara della regular season contro Golden State arriva però la rottura del tendine d’Achille e uno stop di 6/8 mesi che potrebbe chiudere la carriera. I Lakers riusciranno ad arrivare ai playoff ma verranno sweepati da San Antonio senza Bryant.

Tornato sul parquet a dicembre 2012, Kobe ha la possibilità di giocare solo 6 partite prima di doversi fermare ancora. Contro Memphis, infatti, arriva la frattura della tibia al ginocchio sinistro che gli fa chiudere la stagione anzitempo. La regular season 2014/15 è la diciannovesima per Bryant in canotta gialloviola che parte senza troppi problemi fisici. Kobe ha la possibilità di pensare ai soli record personali visto che la squadra non ha chance di playoff. Il 14 dicembre 2014 riesce a superare il suo idolo Michael Jordan nella classifica dei punti in NBA piazzandosi al terzo posto. Gli acciacchi iniziano però a tormentarlo da quel momento in poi e in particolare, dopo essersi rotto la cuffia rotatoria della spalla destra contro New Orleans, dovrà fermarsi nuovamente fino a stagione conclusa.

L’ultimo ballo

Dopo alcuni problemi nella preseason 2015/16 e un roster gialloviola al dir poco imbarazzante, Kobe decide di chiudere la sua carriera cestistica. Lo fa il 29 novembre 2015 con una fantastica lettera su The Players Tribune intitolata “Dear Basketball”. Si tratta di un vero e proprio inno al gioco e al sé stesso bambino con tanti sogni da realizzare. Una lettera così toccante e spassionata che diventerà poi un corto animato nel 2018 capace di valergli anche l’oscar come miglior corto animato. Il match successivo al suo annuncio è proprio nella sua città natale Philadelphia dove Kobe non è mai stato amato, anzi spesso fischiato e insultato. Lui chiede a tutte le franchigie rivali di non regalargli passerelle ma raccoglie comunque tanti applausi e segni di rispetto anche in palazzetti dove è stato odiato.

A Boston, Sacramento, Salt Lake City e San Antonio riceve applausi che lo sorprendono non poco. Però stiamo parlando comunque del Black Mamba e il suo spirito competitivo deve pur sempre uscire. Il 24 non può che dimostrarlo all’ultima sfida della sua carriera allo Staples Center contro gli Utah Jazz. Kobe piazza 60 punti nella vittoria dei suoi diventando il più anziano di sempre a riuscirci. Una chiusura stupenda da vero fuoriclasse del basket che sarà ricordato come uno dei più grandi di sempre. Chiuso il suo rapporto diretto con la palla a spicchi, Kobe si dedica alla famiglia che gli è sempre stato vicino e soprattutto alla figlia Gianna, amante dl basket come il padre.

Kobe la porta spesso negli anni a vedere da vicino match di NBA e di WNBA ma manca la notte del 25 gennaio in cui LeBron James lo sorpassa come terzo marcatore di sempre in NBA. Si tratta della sera prima del tragico incidente che ci ha portato via per sempre sia Kobe che Gianna. Il tweet delle sue congratulazioni a LBJ è l’ultima parola pubblica che ci rimane, l’ultimo segno tangibile di Kobe.

La Mamba Mentality però non è morta con lui anzi ha trovato nuova linfa e si è espansa in tutto il mondo. I Lakers hanno trovato la forza per vincere il titolo nella Bolla in suo nome, Booker ha raccolto la sua eredità sul campo e la NBA gli ha omaggiato il premio come MVP dell’All-Star Game. Kobe è poi entrato ufficialmente nella Hall of Fame nella classe 2020 con un commuovente discoso della moglie Vanessa e di MJ. Perché quello che ci ha lasciato il Mamba lo potremo ricordare per sempre ma quello che ci ha lasciato Kobe rimane dentro chi ha avuto la fortuna di viverlo.

Di Giuseppe Capizzi

Sono un 30enne napoletano con la passione per lo sport. Seguo tutte le principali competizioni sportive ma in particolare sono malato di calcio e NBA. Amo viaggiare e credo che l'esperienza formativa più grande sia stata visitare New York.

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